Lentini: "Potevo essere molto di più, anche se ormai ci penso poco"
Il suo trasferimento al Milan fece epoca: tanti i miliardi ufficiali, altri in nero denunciati da Borsano, i cassonetti di mezza Torino incendiati dai tifosi traditi e arrabbiati. Ma quel Gianluigi Lentini era troppo forte per fermarsi per sempre dove era cresciuto come uomo e calciatore. Lasciò Torino tra le polemiche, le accuse e la rabbia; andò in un Milan stellare, dimostrando che in mezzo a quel firmamento lui poteva brillare. Un solo anno alla ribalta mondiale, poi il terribile schianto a 200 km/h, il coma, una lunga riabilitazione e il proseguo di una carriera spezzata e ricucita solo in parte. Il rimpianto di cosa poteva essere lo descrive lui stesso, in una lunga confidenza al collega di La Repubblica: "Potevo essere molto di più, anche se ormai ci penso poco. Mai stato depresso però capisco che possa succedere, ci sta, il calcio non è come lo credete voi. Se non avessi picchiato con l'auto e battuto forte la testa, era il 2 agosto del '93, sarei stato una bestia per tanti anni ancora. Mi sentivo un leone, nei test nessuno aveva i miei valori in quel Milan in quanto a velocità, potenza, tecnica, resistenza”.
Oggi vive a Carmagnola, il paese che gli diede i natali: "Un posto vale l'altro, e allora è meglio stare nel proprio". Dei fasti passati resta una vetrinetta con qualche trofeo, qualche vecchia maglia da calcio. "Ho regalato quasi tutto. Ho tenuto quelle del Milan, del Toro, della nazionale, una del Real Madrid, quella dell'Atalanta del mio amico Pisani, che morì in auto insieme alla fidanzata. Non vivo di ricordi".
Lui. Gli altri invece, quelli cresciuti negli anni ‘80 e ’90 lo ricordano eccome Gigi Lentini. Uno degli ultimi talenti cristallini forgiati alla fiamma del Filadelfia. E dopo Bacigalupo, Ballarin, Maroso…, Castellini, Santin, Salvadori… l’ultimo mantra ripetuto dai ragazzini come una litania: Marchegiani, Bruno, Policano, Mussi, Annoni, Cravero, Scifo, Lentini, Casagrande, Martin Vasquez, Bresciani.
E’ sempre stato uno irregolare: "Ma non testa di cazzo, chi mi conosce lo sa. Sempre stato un ragazzo tranquillo. Del calcio mi piaceva solo il campo, tutto il resto no. Mai pensato al dopo, anche se in questo dopo ci sto benissimo. Mai pensato di diventare allenatore. Non mi sono preparato a niente".
"Ogni tanto la gente mi chiede, ma che fine hai fatto? Io non sto in tv, non sono diventato opinionista, alle cene dei club granata non vado quasi mai, anche se mi invitano spesso.
Ho quarantasei anni, negli ultimi tempi avevo giocato con il Canelli in Eccellenza, poi Saviglianese in Promozione, Nicese che sarebbe la squadra di Nizza Monferrato, Carmagnola. E sempre col mio amico Diego Fuser, anche lui del Toro. Inseparabili. Io senza più cartilagini, senza un crociato anteriore ma con un fisico da bestia, modestamente. Non ho il patentino, non ho una strada nel calcio, mai stato un leccaculo".
Adesso gli piace giocare a biliardo: "Sono bravo, anche se contro i campioni divento nessuno. Faccio i tornei provinciali. Quando arrivo, la gente a volte mi guarda strano, poi smetto di essere Lentini e ogni cosa va a posto: sono solo un giocatore di biliardo. Cinque birilli o goriziana, nove birilli. Mio papà Luigi mi veniva a prendere all'allenamento quand'ero bambino e mi portava con lui. Lo guardavo giocare, mi incantavo. La stecca, il panno verde, la luce sopra".
"All'inizio parlavo come un bambino. Avevo i riflessi lenti e non me ne accorgevo. Anche in campo, quando tornai, ero lento, ma ogni cosa poi andò a posto, due stagioni dopo ero di nuovo fortissimo, ero sicuro che avrei giocato la finale di Coppa dei Campioni 1995, Milan-Ajax a Vienna. Invece Capello mi tenne fuori, lui non dà mai spiegazioni. Crollò tutto. Persi la voglia, sbagliai. Quella sera è finita la mia carriera".
Poi un vecchio amico Mondonico che lo chiama all'Atalanta ("Hai finito di fare vacanza?, mi chiese"), il ritorno al Toro, il Cosenza. "Qualche altra soddisfazione me la tolsi, ma sempre con quella frase addosso: Lentini non è più lui. Un luogo comune, perché potevo giocare male anche prima dell'incidente".
Le giornate ora le passa così: "La mattina vado in palestra, mi rilasso. Il pomeriggio gioco a biliardo. Guardo un po' il Toro e il Milan in tv, le squadre per cui tifo, e la Champions. Gli amici alla lunga li perdi, mica succede soltanto ai campioni. A volte penso che non ho mai fatto un mondiale e mi dispiace: senza l'incidente sarei andato a Usa '94, e credo che avrei pure giocato. Sbagliai a dire che non volevo lasciare il Toro, era vero ma non dovevo dirlo, mi avevano già venduto e non lo sapevo, così sono passato per traditore. Berlusconi mi mandò a prendere due volte con l'elicottero, e la prima volta gli dissi no in faccia, a casa sua. Non andai là per i soldi. Il Toro non poteva fare a meno di vendermi, quei miliardi servivano a Borsano. E comunque, il primo scudetto nel Milan fu meraviglioso, come la finale di Coppa Uefa persa col Toro". E adesso, Gigi? "Qualche volta gioco a calcetto, non sono una persona triste anche se mi piace rimanere tranquillo, senza pensare troppo, senza essere qualcuno".