Vatta: "Il calcio è uno sport-gioco"

04.06.2011 08:15 di  Elena Rossin   vedi letture
Fonte: Tuttomercatoweb.com
Vatta: "Il calcio è uno sport-gioco"
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© foto di Claudio Sottile

Abbiamo intervistato in esclusiva Sergio Vatta, allenatore del settore giovanile del Torino dal 1977 al ’91, con una parentesi nell’89 alla guida della prima squadra, e poi nei quadri tecnici federali in qualità di allenatore e responsabile delle Nazionali giovanili Under 16 e Under 17, fino al 1997. Dopo una breve esperienza con la Nazionale femminile, che riesce a portare alla fase finale dei Mondiali, dal 1998 al 2001 dirige il settore giovanile della Lazio. Con Vatta abbiamo parlato della situazione del calcio giovanile in Italia. Ci sono talenti che si perdono perché interrompono la fase dell’apprendistato e intorno a loro si creano interessi esagerati e troppe aspettative. Il giovane non deve essere un soggetto passivo che esegue solo degli ordini, deve conquistare il gesto tecnico. L’intelligenza è fatta di apprendimento, di capacità di selezione e di creatività. Un allenatore è bravo se non rovina un talento. La caratteristica principale dei grandi giocatori è la durata nel tempo. Leggere il futuro di un ragazzo è il dovere di un allenatore. I presidenti devono prendere giocatori che li emozionano, quelli capaci di leggere la partita e di fare le giocate che gli altri non fanno.

Il calcio giovanile in Italia sembra sempre in bilico fra l’essere una risorsa o una zavorra per le società. Perché?
“Nel mondo del calcio in generale, e in quello giovanile in particolare, sono entrati personaggi non bene identificati, che non hanno titoli per starci, che purtroppo fanno in modo che gli allenatori, molti dei quali sono veramente bravi, non riescano più a fare selezione, perché vengono loro imposti dei ragazzi attraverso manovre, chiamiamole di sottobosco calcistico. Ci si riempie sempre la bocca con il settore giovanile quando non si fanno risultati con le prime squadre e con le Nazionali, ma poi scopriamo amaramente che c’è il Barcellona che vince la Champions League con otto ragazzi del suo vivaio e allora cominciamo a dire che bisogna localizzare. Parliamoci chiaro: ci sono squadre Primavera che hanno molti stranieri, tra questi c’è gente che guadagna 150-200 mila euro, è una vergogna! In percentuale non sono mica tanti quelli che arrivano lontano, non varrebbe piuttosto la pena tenersi i soldi e utilizzarli per le strutture? In Italia mancano le strutture, vadano a vedere in Spagna come è organizzato il Villarreal, il Valencia o il Barcellona; io ho fatto tornei in tutto il mondo ho visto campi e strutture presenti da molti anni; la Spagna ha avuto buone squadre e non è riuscita a vincere molti trofei, perché a livello mondiale per vincere ci vogliono molti fattori in concomitanza che influiscano e occorre avere la fortuna che sei o sette giocatori della nazionale siano in un momento favorevole, come è accaduto all’ultimo Mondiale e al Barcellona in Champions, così la Spagna vince tutto. Noi scegliamo la strada più breve, perché fa comodo a certi piccoli procuratori del sottobosco che maneggiano e manovrano ragazzi che non sono fenomeni guadagnandoci dei soldi, ma non certo la credibilità di chi conosce questo mestiere. Purtroppo tutti vogliono spartirsi la torta. Adesso ai vertici del calcio giovanile abbiamo Gianni Rivera, Arrigo Sacchi e Roberto Baggio, tre grandi nomi che hanno fatto la storia del calcio italiano, e possono fare molto anche solo sul piano mediatico, però bisogna fare in modo che abbiano gli strumenti e soprattutto che non si chieda loro, dopo un mese, di fare miracoli, ci vogliono anni per ottenere dei risultati nel settore giovanile. Si siedano attorno ad un tavolo con tutti gli strumenti necessari per organizzarsi e fare una bella commissione tecnica itinerante che vada in giro per l’Italia a vedere e spingere le società, dando loro dei vantaggi, al fine di localizzare il lavoro con i giovani. Abbiamo talenti, ma si perdono perché interrompono spesso la fase dell’apprendistato, intorno a loro si creano interessi esagerati e aspettative e il ragazzo finisce per pensare solo ai soldi, ma questi soldi non sono quelli veri, perché molti di loro non hanno finito il periodo dell’apprendistato e non diventano dei calciatori di livello. Molti allenatori dei settori giovanili hanno ancora più fretta di arrivare dei ragazzi e quindi puntano tutto sulla prestazione anziché sul ragazzo, che deve effettuare la prestazione, sono due cose così lontane che bisogna essere ciechi per non capirlo”.

Quanto un procuratore può fare la fortuna o la sfortuna di un giovane calciatore?
“Mi è capitato di scontrarmi con molti di loro nei dibattiti, non voglio fare dei nomi, ma posso dire di aver sentito troppe volte dire da loro: io ho scoperto Tizio e Caio. Ma cosa hai scoperto? A sedici-diciassette anni non hai scoperto proprio un bel niente, hai interrotto il percorso di un ragazzo che stava imparando. Mettiamoci bene in testa che quando parlano di talenti e dicono di aver insegnato questo e quello o di aver scoperto, tutte storie: i ragazzi crescono, purtroppo, nei momenti di distrazione dei loro allenatori, questa è la verità. Qui parliamo di calcio, non di lancio del giavellotto. Nel calcio la creatività è determinante, la creatività è libertà. Il ragazzo va molto più lontano di noi se apriamo il pugno con lui, noi allenatori lo chiudiamo il pugno con quasi tutti, tranne con quelli che ci fanno vincere le partite, invece dobbiamo aprirlo con tutti perché l’allenatore purtroppo punta sulla propria idea e rinuncia al contributo di mille idee che possono dargli i suoi ragazzi. Non è questo il modo di condurre le cose, è un modo abbastanza primitivo. Noi quando insegniamo qualche cosa ai ragazzi, quando gli buttiamo la palla, non parliamo alla loro gamba, ma alla loro testa, non possiamo dimenticarlo. Io non ho mai insegnato tante cose, però ho insegnato ad imparare. Insegnare a imparare è un percorso lungo e complesso, sintetizzando è fare col ragazzo, non fare sul ragazzo. Il giovane non deve essere un soggetto passivo che esegue solo degli ordini, deve conquistare il gesto tecnico, quando s’impara un gesto tecnico lo si fa proprio solo se lo si impara da soli, se ci si arriva grazie all’esperienza del proprio allenatore nel momento che si gioca d’istinto in gara il giocatore non potrà metterlo in pratica perché non ha fatto tutto il percorso necessario. I procuratori che parlano in questo modo non devono essere considerati esperti di calcio, a livello giovanile sono altri gli esperti. A uno di questi procuratori ho detto “tu vai in un settore giovanile dove hanno lavorato benissimo per molti anni bravi allenatori e ti sostituisci e cerchi di prenderti i meriti del lavoro degli allenatori ma chi sei? Che cosa vuoi insegnare a questi ragazzi?” Ricordiamoci sempre che i ragazzi più bravi ce la fanno sempre, anche senza di noi e questa è la dimostrazione che vale di più quello che fanno loro di quello che facciamo noi, se sono liberi veramente vanno cento volte più lontano di quello che andrebbero con i nostri consigli”.

Quali caratteristiche deve avere un ragazzo per diventare un calciatore di buon livello?
“Deve avere un’intelligenza completa. L’intelligenza è fatta di apprendimento, di capacità di selezione e di creatività, quest’ultima è la più alta espressione dell’intelligenza, ma occorre avere anche altre qualità, come saper selezionare. Ci sono calciatori che hanno grandissime capacità di apprendimento, ma sono i falsi talenti, imparano qualsiasi cosa facilmente, ma poi non la sanno utilizzare perché non hanno maturità, ovvero la capacità di selezionare quello che è più utile a loro stessi. Quindi non basta né la creatività, né la capacità di apprendimento se non c’è quest’altra capacità che non è la più importante, ma è necessaria e indispensabile per crescere. Nella storia mondiale del calcio la caratteristica principale dei talenti è la longevità, questo perché, oltre alla grande creatività e alla capacità di apprendimento, hanno la grande capacità di selezione che permette loro, nel momento della diminuzione della capacità fisiche, di adattarsi e quindi proseguono cambiando il loro modo di giocare, utilizzandosi al meglio sul piano fisico e ce la fanno lo stesso giocando un calcio meno dispendioso, perché nel frattempo sono diventati bravissimi, come fanno, tanto per fare un esempio, i giocatori del Barcellona. A me fa ridere quando sento affermazioni, spesso anche da parte di personaggi importanti, che dicono che il Barça è un collettivo perché sanno lavorare meglio di noi, infatti valorizzano il singolo con il collettivo. E no, il collettivo si attesterà a livelli tanto più alti quanto più alto è il livello individuale, quindi io con un ragazzo lavoro sull’individuo, su tutte le sue capacità che deve liberare e poi lo metto insieme agli altri e solo dopo gli chiedo delle cose. Vantarsi di aver fatto un giocatore è facile, ma lo pago io quello li che sa fare i giocatori, se non hanno talento non diventeranno mai bravi giocatori”.

Quali peculiarità deve avere un allenatore delle giovanili?
“La bravura di un allenatore delle giovanili si vede su un giocatore medio, perché uno riesce a portare un talento di livello medio a giocare in serie A. Dopo gli otto anni di età tutte le capacità coordinative più importanti cominciano a diminuire e diventano meno allenabili, poi arrivano degli altri momenti in cui si ripresenta la capacità di mettere a frutto il lavoro sulle capacità coordinative, ma mai come a sei e sette anni, come ad esempio per la rapidità a sei anni; c’è una sola capacità coordinativa che si riesce ad allenare sempre ed è la capacità di orientamento, su questa si può lavorare anche a quattordici anni quando tutte le altre capacità si assopiscono. Mi diceva Silvano Benedetti, che è sempre stato uno con un po’ i piedi di gesso, ma che ha giocato tanti anni in serie A a buoni livelli, mister se io in quel periodo (quando c’era lei, ndr) non fossi stato al Torino avrei fatto l’impiegato - aveva ricevuto diverse offerte di lavoro poiché era molto bravo a scuola -, io ho imparato delle cose che non mi sognavo neanche. Quando sono andato al settore femminile c’erano delle ragazze che avevano già fatto cento partite in Nazionale e alcune mi hanno detto che non avevano mai avuto un allenatore ed io obiettavo di non esagerate, ma no, replicavano loro, non abbiamo imparato niente e siamo delle poverette che avrebbero potuto vincere perché siamo forti e se avessimo avuto un allenatore capace di insegnarci sarebbe stata un’altra cosa, lo abbiamo capito solo adesso. Ho spiegato loro che non era proprio così, perché era nel settore giovanile che gli allenatori avrebbero dovuto insegnare certe cose e poi automatizzarle e poi utilizzarle con la creatività d’istinto. Ci sono campioni che quando fanno gli esercizi obbligatori sembrano brocchi e poi diventano bravi quando giocano la partita, perché giocano d’istinto liberando tutta la loro creatività ed è lì che l’allenatore deve essere capace a inserire le regole senza soffocare le capacità: noi siamo già bravi se riusciamo a non rovinare il talento, mettiamoci nella testa che lui è più avanti di noi sotto tutti gli aspetti, quindi non andiamo a vantarci di aver fatto questo o quello. Io ho imparato molto dai giocatori osservandoli. Specialmente con i ragazzini non c’è nulla che te lo mostra così com’è con tutte le sue qualità e difetti se non quando gioca, se non gioca libero il ragazzino non impara. Dimentichiamo troppo spesso che il calcio è uno sport-gioco, se gli togliamo questa componente diventa una porcheria, è l’unico tra gli sport che entusiasma anche a livello dei più piccoli, è bello vedere i bambini, maschi e femmine, che giocano a calcio. In altri sport dove ci sono quattro movimenti come il volley o il basket, dove bisogna essere alti due metri, tranne uno o due giocatori per squadra, se no sei fuori. Mi diceva Velasco che, quando lui ha preso la Nazionale di volley, la prima cosa che ha fatto è stato eliminare quelli sotto i due metri e da lì si è formata la squadra che ha vinto tutto nel mondo. I grandi nel calcio sono alti 1,72-1,75 alcuni anche 1,85, ma non sono giganti, il fisico non è discriminante. I medici a Messi avevano detto che forse non avrebbe camminato con le sue gambe per tutta la vita, invece il Barcellona lo ha preso, ha fatto un grande lavoro per rinforzarlo e senza soffocare il suo talento lo ha aiutato e lui riesce a risolvere molte partite, fa più di cinquanta gol all’anno. Io in campo ho sempre messo i più bravi e ho cercato una modalità di gioco che potesse valorizzare tutti. Tante volte dicevo ai ragazzi, quando ne vedevo uno interessante, che dovevano togliersi dalla testa che io potessi fare qualche cosa per loro, io avevo già fatto la cosa più importante che era quella di prenderli, daro la grande occasione, adesso toccava a loro. Leggere il futuro di un ragazzo. Le possibilità di sviluppo non dipendono dall’allenatore, un giocatore in un determinato momento può sbagliare perché non ha una grandissima tecnica, però se ha qualità fisiche e continuità, ma continuità non solo nelle gambe e nei polmoni, ma nel pensiero, cioè la capacità di partorire pensiero durante la gara, maturerà. La continuità sono queste caratteristiche e anche l’ottimismo, il calcio ha tante interruzioni che si recupera facilmente qualsiasi sforzo, quello che manca ai giocatori discontinui è la capacità di partorire idee e l’assenza di ottimismo: crederci sempre su tutti i palloni. Questa è una cosa che s’impara con il tempo, l’importante che il clima sia quello che l’istruttore e poi l’allenatore, quando il giovane diventa professionista, è quello che valorizza il contributo del giocatore, ma qualche volta valorizza anche solo le buone intenzioni. Alle volte il giocatore ce la mette tutta per darti la sua collaborazione e tu allenatore in quel momento devi saper valorizzare le sue buone intenzioni, se riesci a fare quello il gioco è fatto, metti il calciatore in una condizione di evoluzione permanente e crescerà fino alla fine della sua carriera e anche dopo migliorerà in altre cose; questo è un concetto che una volta che una persona se ne è appropriata farà la sua fortuna.”.

Se un presidente le chiedesse di consigliargli un giovane sul quale puntare cosa gli direbbe?
“Prima di tutto bisogna vedere che tipo di squadra è, senza fare nomi perché non è bello, poi gli direi di prendere un giocatore che lo emoziona. Tanti, quando vanno ad osservare un giocatore, si focalizzano sul fatto se calcia di destro o di sinistro, ma la tecnica è una cosa che si insegna come il tornio. A me capitava di osservare un ragazzo e dopo cinque minuti dire che mi piaceva, e alla fine della partita tutti gli altri mi dicevano è uno forte, infatti tu lo avevi detto subito quando non aveva quasi toccato palla, ma non era vero che non aveva toccato palla, lo aveva fatto due o tre volte. Quando un giovane fa cose che gli altri alla sua età non fanno di solito ti emoziona, è un giocatore che vede più lui dal campo che noi da fuori, ecco questo è il giocatore che consiglierei. Un giocatore di medio livello come Piqué del Barcellona è un grande, perché non ha niente di speciale, ma è speciale lui, non sbaglia mai, vede tutto, consiglia i compagni: questa è la sua grandezza”.