Dal maschilismo nel calcio italiano non ci si libera. Il patròn del Chieti Bellia: "Meglio se certi arbitri donna restassero a fare la calzetta"

06.02.2013 09:00 di Claudio Colla   vedi letture
Da sx: L.Abruzzese, S.Spinelli
TUTTOmercatoWEB.com
Da sx: L.Abruzzese, S.Spinelli
© foto di Ninni Cannella/TuttoLegaPro.com

In un'Italia di finti macho, di eterni, impresentabili guasconi, forieri di un'agenda (sub)culturale volta a rendere la donna mero simulacro di forme accattivanti, privo di cervello e di coscienza critica, un altro piccolo grande caso di greve maschilismo ha segnato la giornata di Lega Pro svoltasi domenica 3 febbraio. Nel dopopartita di Chieti-Melfi 1-1, con gli ospiti in gol mentre al difensore teatino Abel Gigli non era ancora stato permesso il rientro in campo da parte dell'arbitro Silvia Tea Spinelli, il presidente e massimo azionista dei neroverdi abruzzesi Walter Bellia ha testualmente affermato, ai microfoni di TVSei (dichiarazioni video riportate sulla home page del sito ufficiale della società): "Oggi un'altra rapina. Io non volevo parlare, però, visto quello che è successo a Campobasso, e visto quello che è successo oggi, mi rendo conto che vanno in giro degli arbitri che è meglio che stanno a casa; specialmente se sono donne, che facessero la calzetta. C'è stata una sostituzione, e nella sostituzione si poteva far rientrare il giocatore che si era già medicato; non l'ha fatto rientrare e abbiamo preso gol, ma a parte il prendere gol non si può per tutta la partita arbitrare a senso unico. Abbiamo visto (quanto accaduto, ndr) a Campobasso, e sono stato zitto, non ho detto niente in settimana; ci vediamo arrivare qui un arbitro donna, che arbitra a senso unico pure questa volta. È inutile, avevo deciso di non parlare degli arbitri, ma quando si deve dire, si deve dire: arbitraggio scandaloso, a senso unico, ci sono le immagini". La consecutio temporum non è certamente amica del patròn, ma ancor meno sembra esserlo il concetto di pari dignità dei generi. Mostratosi in un'autentica esibizione di grettezza, fenomenologia purtroppo non rara dalle parti della pancia del Belpaese, caratteristica di quell'Italietta con la quale i più avveduti tra noi avrebbero già da tempo voluto chiudere i conti, Bellia, metonimìa pulsante di tutti quei padri padroni che sognano una donna ancora sottomessa, silenziosa e obbediente, calpesta e si fa beffe dell'Articolo 3 della Costituzione della Repubblica Italiana, vilipesa a più riprese in tempi recenti e, mai come in epoca di tanta decadenza, riferimento prezioso:

"Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".

Le parole pronunciate da Bellia, al di là del merito delle decisioni arbitrali e del comprensibile nervosismo post-gara, non sono che l'ultima, micragnosa punta di un iceberg duro da scalfire, ripieno di un ventre molle e pateticamente asservito alle logiche dello sciovinismo, caro a quei potenti da operetta che imperterriti continuano a innaffiare fastosi orticelli, impermeabili al germinare di frutti nuovi e, finalmente, egualitari. Gli organi competenti, nel frattempo, non sembrano aver dato alcun segnale: ci saremmo aspettati che l'AIA, al di là del difficile momento vissuto dalla categoria arbitrale, esprimesse vicinanza nei confronti della direttrice di gara e di tutte le sue colleghe.

Massima solidarietà dunque a Silvia Spinelli, 42enne barese appartenente alla sezione di Terni, capace di farsi largo in un mondo ancora ostile a un reale riconoscimento della pari dignità di genere. Al presidente del Chieti un umile consiglio: scuse immediate alla signora Spinelli, offesa come arbitro e come donna, e all'universo femminile in toto. Il prossimo 8 marzo non è distante, ma a riscattare la vergogna della discriminazione non basteranno un mazzetto di mimose e qualche sgangherata parola di circostanza.