Salviamo il Toro

28.10.2008 10:22 di  Marina Beccuti   vedi letture
Fonte: stampa.it

GUIDO BOFFO

Ultimi, e con scarse speranze di beatitudine. La crisi ormai cronica del Toro rasenta il mistero. C’è un presidente giovane, che ha mostrato capacità imprenditoriali al netto dei perdonabili vezzi berlusconiani, un nome da Papa e un cognome da capitale, la fama di «braccino» smentita dall’ultima campagna acquisti (20 e rotti milioni di euro sul mercato). C’è una tifoseria che sopravvive chissà come ai rovesci, al Filadelfia demolito, ai presidenti-notai (Goveani), ai presidenti di professione (Calleri), ai presidenti-liquidatori (Cimminelli), alimentando la propria identità per autocombustione. Si brucia di passione e di rabbia, soprattutto di delusione. C’è la Storia, una delle poche società di calcio al mondo che possa scriverla con la maiuscola, e non solo sulle lapidi che in città sono assurte a sudario, da Superga a corso Re Umberto, dove cadde Meroni. C’è tutto questo ma il Toro è lo stesso ultimo in classifica, con la Reggina, derubricato a un sorriso di condoglianza nelle trasmissioni televisive. Poverini, già.

Salvarlo, ma da chi? Dalla nuvola di Fantozzi, abbozza Novellino. Lui fa parte del club degli ex, esclusivo e beneaugurante, perché di solito Cairo ci ripensa. De Biasi è tornato due volte, Monzon passeggia speranzoso in anticamera. Sulla panchina che scotta si sono bruciati un po’ tutti, compreso Zaccheroni, e allora il problema sta altrove, dalle parti di colui che dovrebbe risolverlo.

Il paradosso nasce da un equivoco: Cairo è convinto che il Toro si possa gestire da Milano, sede delle sue attività editoriali, con la longa manus del padre-padrone, un catechismo dispensato saltuariamente alla squadra, qualche slogan a effetto distribuito alla stampa e soprattutto a Ilaria D’Amico, un direttore sportivo rigorosamente ombra, un segretario zelante (spesso troppo) che anziché occuparsi della cancelleria intercetta i sospiri e li riporta al principale. Non sarebbe il primo presidente autocratico, ma Claudio Lotito, per citare l’esempio più pertinente, vive ventiquattr’ore al giorno le pieghe di Roma e gli anfratti della Lazio. Lui, al confronto, è part-time.

Salvare il Toro significa salvare Cairo da una solitudine ormai insostenibile, a meno che non si vogliano spacciare per compagnia le incursioni di qualche procuratore interessato (alle percentuali dei contratti). Salvarlo anche dal culto della propria immagine, dalla diffidenza nei confronti di chiunque possa espropriarla - l’immagine - e venire intervistato al posto suo; convincerlo a fare un passo indietro. Cairo è il miglior presidente possibile del Toro, sino a prova contraria, ma non il migliore amministratore delegato o direttore generale. E nemmeno il miglior team manager, magazziniere, allenatore, tecnico, inserviente. Fatica a controllare uno spogliatoio con l’insana abitudine di cannibalizzare gli allenatori, si lascia dettare l’agenda da giocatori non altrettanto solerti in campo, parte con un progetto e finisce con un’emergenza. Spende più di Udinese e Catania, che stanno nei quartieri alti del campionato, però deve combattere con una classifica avvilente. Gli serve un proconsole, non una spia. Qualcuno che fissi domicilio nella squadra, imponga la legge sua e non del gruppo, dica qualcosa di autenticamente torinista, faccia scudo all’allenatore, non venga sconfessato alla prima esibizione di personalità. E magari, tre volte al mese, gridi allo scandalo del Filadelfia abbandonato. Perché se il Toro sta morendo di retorica non è una buona ragione per rinunciare ad avere un tetto sotto il quale disperarsi. O consolarsi.