La colpa del tifoso qualunque
ROBERTO BECCANTINI
Un padre di famiglia, tifoso come tanti: per questo, temo che la notizia del suo vile ferimento non sazierà il sentimento popolare come, di solito, lo alimentano le risse fra ultrà, con l’immancabile strascico di tavole rotonde e seminari assortiti. I politici politicanti sono sempre pronti a scendere in campo in base a dove porta il saluto (romano) o il pugno (chiuso), ma stavolta? Mi auguro che gli attestati di solidarietà e impegno manifestati dalla presidentessa del Bologna e ribaditi dalle forze dell’ordine non calino d’intensità in coincidenza con la progressiva rimozione del caso da giornali e telegiornali.
Era un padre, non un padrino: ha difeso il figlio, che portava una sciarpa bianconera, una sciarpa e basta. Era pensiero debole, non pensiero unico: nel senso che essere preso a sassate e soccorso a calci e insulti in quel punto lì, per quel motivo lì, in quel momento lì costituiva l’eventualità più eticamente remota, anche se lombrosianamente possibile. Le dotte disquisizioni attorno all’imbarbarimento delle ideologie non c’entrano: ci troviamo di fronte a un «classico» ferito del calcio, con la maglia che sfratta la divisa del carabiniere o del poliziotto e si riappropria, in maniera trucida, del cuore del ring. Li hanno aggrediti perché «nemici» e, in quanto tali, soldati di uno stato avverso. Calciopoli ha contribuito a esacerbare gli animi: stiamo attenti, quando ne maneggiamo le sentenze. Dovremo resistere alla carenza di appigli (la partita era filata via liscia come l’olio), all’assenza di moventi sociologici (nessun estremismo di destra contro nessun estremismo di sinistra) e, soprattutto, all’aspetto più inquietante: «In fin dei conti, non è stata mica un’ecatombe, di mezzo ci è andata solo una persona, e non è manco morta». Ecco: se ci arrendiamo al tepore falso della quantità, non capiremo mai l’aberrante gelo della qualità del teppismo calcistico che, aizzato dall’odio diffuso nel Paese, appena può ci mette, vergognosamente, una pietra sopra.