DocuCalcio - Gigi Meroni, "Il Quinto Beatle". Tra arte, ironia, e rivoluzione
Documentario realizzato nel 2008, per la rubrica "La Storia siamo noi", a cura di RAI Educational, con gli interventi da studio di Gianni Minoli, "Gigi Meroni. Il ragazzo che giocava un altro gioco" riconsegna su schermo la vita del fantasista comasco, talento inesauribile e incommensurabile tragicamente scomparso a soli 24 anni d'età. Un'esistenza capace di intrecciare in sé, nel proprio nucleo pulsante, il calcio inteso come arte, l'anticoformismo incontaminato, la rivoluzione dei costumi unita a una disarmante semplicità dell'animo (ancorché non della mente, vivace e fervida).
Il reportage, che ripercorre la vita della Farfalla Granata fin dall'infanzia, adotta come incipit un breve filmato di repertorio, risalente alla metà degli Anni '60, nel corso del quale alcuni passanti, nel centro di Torino, vengono interrogati su chi sia Gigi Meroni, e su quale sia la loro opinione in merito. Dalla madamìn che non risparmia il punto di vista sul valore del gioco di squadra ("Se dribblasse meno, andrebbe meglio"), al monssù che esprime il proprio parere da calciofilo dell'epoca, con equilibrio e sano distacco, rivelando signorilmente la propria fede juventina.
Classe '43, di umili origini, Meroni, i primi anni della cui vita furono caratterizzati dalla prematura scomparsa del papà, crebbe tra gli sforzi della mamma Rosa per mantenere lui, Celestino (il fratello maggiore), e Maria (sorella minore, più volte interpellata nel corso del documentario), e i primi calci al pallone all'oratorio di San Bartolomeo. Evocati dagli amici di allora, tra il ricordo dolceamaro delle giornate da ragazzini insieme a un giovanissimo Gigi, che impara l'uno-due contro il muricciòlo del campetto, troppo piccolo per le rimesse laterali, e delle lunghe chiacchierate ("quasi mai sul calcio", affermano) col Meroni giovane adulto e ormai calciatore arcinoto, che amava tornare, di tanto in tanto, nella sua terra d'origine, per salutare gli affetti dell'infanzia.
Una vicenda calcistica che entra nel vivo, dopo i primi passi da professionista al Como, nel 1962, quando il Genoa scommette su di lui. Difficilmente inquadrabile tatticamente, Meroni, schierato comunque per lo più come ala destra, Numero Sette dell'epoca, si mette in evidenza come talento fuori dal comune; dopo un biennio, lo acquista così il Toro per 300 milioni di lire, cifra-record per un giocatore di appena 21 anni. Gli operai genovesi, ricorda Enrico Deaglio, scesero in piazza per opporsi alla cessione di Meroni, protesta che si rivelò vana. Scenario analogo, all'apice della sua esperienza granata, nell'estate del 1967, quando Gianni Agnelli sarebbe stato disposto a spenderne 750, di milioni, per portarlo alla Juventus. Lo stesso patròn bianconero e della FIAT rinunciò. Per rispetto, si narra, dei cugini, anch'essi in fase di forte contestazione a fronte dello scenario di un cambio di sponda cittadina, e per non incrinare i rapporti con l'allora presidente granata, Orfeo Pianelli, importante fornitore industriale della massima fabbrica automobilistica del paese.
Un'esistenza tra leggenda e rottura degli schemi: l'unione con Kristiane Uderstadt, polacca di nascita e genovese d'adozione, che, dopo aver lasciato l'aiuto-regista romano sposato da poco, ed essere tornata da Meroni, in un'Italia ancora priva di una legge per il divorzio, è motivo di scandalo e feroci critiche da parte della stampa; l'amore per l'arte figurativa e il design di vestiti e accessori, in un'epoca agli albori della rivoluzione musical-culturale del beat, che impazza oltremanica e inizia ad affacciarsi sulle sponde dell'iper-conservatore Belpaese, la cui opinione pubblica non era pronta ad accettare un atleta che non rientrasse pienamente nei parametri dettati dall'immaginario comune (retaggio retrogrado, a dire il vero, che persiste in parte persino al giorno d'oggi).
Orgoglioso del proprio look da "capellone", nell'accezione più brit del termine, Meroni accettò di accorciare la chioma, a 19 anni, su richiesta di Edmondo Fabbri, che lo convocò per la Nazionale B, imponendogli un cambio d'aspetto a fronte della possibilità di giocare o meno con la maglia azzurra. Impossibile, quattro anni dopo, per lo stesso CT, ignorare la crescita esponenziale delle sue qualità, e non inserirlo in rosa, nonostante una dura campagna stampa contro il giocatore (condotta in particolare dal quotidiano capitolino "Il Tempo", ricordano le testimonianze, che aborriva l'ipotesi che l'Italia potesse essere rappresentata, al Mondiale di Inghilterra 1966, da un atleta dall’aspetto ritenuto non consono dall’allora cultura dominante). Convocatolo comunque, Fabbri, si narra, gli mostrò la maglia azzurra Numero Sette, rivolgendosi a Meroni con queste parole: "Se ti tagli i capelli, è tua". La Farfalla rifiutò, pronunciandosi sull'argomento, successivamente, così: "Non è una questione di capelli, né di gusti musicali. È una questione di libertà". Una libertà conquistata e riconquistata, sempre a colpi d'ironia e della giusta leggerezza: Marco Dall'Olio, amico di sempre della Farfalla, ricorda come Gianni Moschino, compagno di squadra di lungo corso - scomparso peraltro solo lo scorso luglio, all'età di 80 anni - si recasse insieme a Meroni a raccogliere le monete, in segno di scherno e di offesa personale, lanciate in campo al grido di "Vatti a lavare, capellone". Con le stesse monete, spiccioli di quei soldi che Meroni ammetteva gli piacesse "spendere, piuttosto che risparmiare", la Farfalla e compagni si pagavano l'aperitivo pre-gara. Peraltro, se tanti tra noi capelloni possono ora dirsi, nella maggior parte dei contesti, socialmente accettati, e non discriminati per scelte che nulla hanno a che fare con una supposta assenza di capacità, serietà, e professionalità, possiamo ringraziare anche pionieri come Gigi.
Fabbri decise di schierare comunque, almeno a tratti, Meroni, il quale, dopo aver brillato nelle amichevoli pre-Mondiale, incluso uno spettacolare gol siglato contro l'Argentina, non fu incluso nell'undici titolare nella prima delle tre gare del girone eliminatorio, vinta contro il Cile. Il fantasista granata fu invece schierato contro l'allora URSS, mentre fu nuovamente relegato in panchina nel corso dell'amara sconfitta subita per mano della Corea del Nord, che costò all'Italia il prosieguo della kermesse iridata. L'avversione nei confronti delle scelte personali di Meroni potrebbe aver inciso nelle valutazioni tecniche, si sottolinea lungo il reportage: la Numero Sette gli fu infatti affidata proprio nella gara meno adatta alle sue caratteristiche di ala leggerina, mentre fu ignorato sia per la partita contro i sudamericani, sia lungo il triste epilogo di quella spedizione, di fronte ai nordcoreani del dentista Pak Doo-Ik.
Tanti i contributi di tifosi del Toro celebri: da Nando Dalla Chiesa, autore, nel 1995, del volume "La Farfalla Granata", dedicato alla storia e all'èpos di Meroni, che lo definisce "eroe omerico, dal destino che affascina e sbigottisce", a Enrico Deaglio, che si commuove ricordando di quando, da studente di Medicina operativo al Mauriziano, fu informato dell'arrivo del corpo ferito del giocatore, che a tentare invano di salvare fu proprio il padre di Attilio "Tilli" Romero (futuro presidente del Toro, che narra di come talora, all'uscita dallo stadio dopo le gare del Toro, alcuni lo scambiassero proprio per Meroni), il giovane alla guida di una delle due auto che lo colpirono, di fronte al civico 46 di Corso Re Umberto. Passando per Piero Chiambretti, che ricorda come, per l'emozione e per il groppo in gola, si recò all'ospedale per vegliare sulla salma di Meroni, salvo poi finire per trovarsi davanti al cadavere di un altro deceduto; per lo scrittore Giuseppe Culicchia, che spiega come, nell'immaginario del tifoso granata, Meroni, dall'Aldilà, scenda in campo tutte le domeniche, alle ore 15 - senza anticipi né posticipi, - insieme al Grande Torino; per Steve Della Casa, che evidenzia come Meroni sia stato un personaggio chiave in quella che si rivelò una vera e propria rivoluzione, ancorché non di natura politica, dal punto di vista della cultura giovanile e dei costumi. In più, le parole di Sandro Mazzola, che ricordano come un gol di Meroni, uno straordinario pallonetto seguito a uno dei suoi slalom d'autore, costò alla sua Inter lo scudetto 1966/67, e la prima sconfitta neroazzurra a San Siro dopo circa tre anni di imbattibilità casalinga.
Numerose le bizzarrie (dalla gallina al guinzaglio alla targa d'auto personalizzata, 777) e le peculiarità, anche fuori dal campo, emerse nel reportage. La passione per la moda e per la pittura (Meroni espose alcune delle sue opere, ricevendo anche i complimenti del maestro Renato Guttuso), supportate dalle parole della Farfalla stessa: dai primi passi da disegnatore di illustrazioni per foulard e abbigliamento femminile, negli anni della sua carriera giovanile al Como, alla testimonianza del sarto Pino Tricase (scomparso poi nel dicembre 2017, e ricordato all'epoca dal Toro), che racconta di come Meroni - esattamente come lo stesso giocatore affermò in un'intervista, - realizzasse per se stesso i modelli di giacche, pantaloni, talora anche di scarpe, consegnandoglieli perché venissero sviluppati, tessuti, e confezionati. Completi, naturalmente, ispirati a linee ancora per lo più non in voga nel Belpaese. Abiti, insomma, in grado di precorrere i tempi, di stupire, in alcuni casi persino di scandalizzare.
Accorato il racconto della corsa in ospedale, dopo il tragico incidente, tra il dolore del compagno di squadra Nestor Combin, definito "animalesco" da Gian Paolo Ormezzano, e il grido lacerante - e lacerato - della compagna Kristiane, che lo stesso giornalista torinese descrive come superiore e unico, in termini di disperazione, rispetto a qualunque cosa abbia mai visto e sentito successivamente. Torino si riunisce intorno a lui, per un ultimo càmpa n'mès, "buttala in mezzo". Quel 15 ottobre maledetto, e quel derby "magico", sette giorni dopo: 4-0 sulla Juve, con tripletta di un Combin feroce e febbricitante, completata dal poker di Alberto Carelli, promosso a titolare, in gol proprio con la Numero Sette di Meroni.
Queste le parole, ricordate appena prima del finale del documentario, che il grande Gianni Brera, il quale non ne fu particolare ammiratore dal punto di vista calcistico, tributò alla Farfalla: “Tu eri giovane e puro abbastanza per non dimenticarti mai di essere vero, neanche nelle stranezze”. E, nello stile dei moderni plot twist cinematografici, il reporter che, nel bel mezzo della bella via Garibaldi, intervista il cortese monssù di fede juventina, si rivela essere proprio Gigi Meroni. Beffardo, ironico, rivoluzionario, grande Gigi Meroni.