Marchetti, l'eterna preghiera
Il destino scorre sul braccio destro attraverso una preghiera eterna. «Quattro anni fa ho avuto un bruttissimo incidente, sull'A4 che collega Milano con Torino. Ero con alcuni compagni di squadra, all'epoca giocavo nella Pro Vercelli in C2». Un sospiro profondo, Federico Marchetti si perde tra i ricordi. Prova a riordinarli uno per uno, poi tutto d'un fiato: «Un camion ci ha tagliato la strada, la nostra macchina si è schiantata sul guardrail e ha preso subito fuoco. Le fiamme alte, noi storditi, imprigionati tra le lamiere. Ho visto la morte in faccia». E non solo quella. «Nel buio ho avuto un abbaglio, la Madonna era lì con noi, è stata lei a salvarci». E per lei si è tatuato un'Ave Maria in lingua avesta. «Il mio ringraziamento per sempre». Miracolato. «Da allora ho deciso di vivere giorno per giorno, senza più rimpianti». Eppure proprio un rammarico quasi lo stordisce mentre si apre il cancello verde che separa il centro federale di Coverciano dal resto del mondo e lui diventa ufficialmente un portiere della Nazionale. «Quanto vorrei che Andrea e Francesco fossero qui con me, chissà cosa direbbero, erano i miei più cari amici, ripetevano in continuazione che un giorno sarei arrivato in alto». Andrea Tagliaferri e Francesco Varrenti. «D'estate, d'inverno, sempre insieme, noi tre». I loro sorrisi ora sono custoditi nel cuore, i nomi scolpiti sull'altro braccio, quello sinistro («così non smetteranno mai di sostenermi»), perché la voce e tutto il resto, invece, se li è portati via l'asfalto, stavolta maledetto. «Morti entrambi in un incidente stradale, uno a distanza di due anni dall'altro». Questa prima maglia azzurra è tutta per loro.
Sguardo impenetrabile, tono perentorio e spalle larghe, lo sono diventate col tempo, perché se la vita lo ha preso spesso a calci, lo sport non lo ha certo risparmiato. «Diciamo che ho fatto la mia gavetta». E mostra il petto mentre scorre l'album della sua carriera da portiere. Un anno fa di questi tempi si apprestava a disputare i playoff di serie B con l'AlbinoLeffe, poi la A da protagonista grazie al Cagliari, adesso addirittura la Nazionale. «Sembra quasi una favola, sarebbe bello un giorno scriverla, e soprattutto raccontarla ai ragazzi che iniziano e faticano a trovare fiducia», la sua prima “parata” dopo la convocazione del ct Lippi per l'amichevole con l'Irlanda del Nord in programma sabato a Pisa. «È un sogno che si avvera», dice e ripete ora che il nastro azzurro si è finalmente spezzato. È l'ennesimo sassolino che schizza via dalla scarpa, uno schiaffo al passato consumato costantemente sul filo. «Mi piace vivere tutte le emozioni al massimo». Sin da quando ha lasciato Bassano del Grappa, la città dove è nato e cresciuto, per trasferirsi a Torino e iniziare l'avventura nelle giovanili granata. «Avevo quattordici anni». Ora ne ha ventisei. «Col Toro ho fatto tutta la trafila, dagli Allievi alla prima squadra». Lo dice orgoglioso. «Ho persino rinnegato la mia infanzia di tifoso juventino». Ma non si pente mica. E proprio una partita contro il Toro, nel campionato appena concluso, ha cambiato la sua storia nel pallone. Domenica 19 ottobre. «E chi se la scorda più». Settima giornata, Cagliari ultimo, un punto appena in classifica. «Arrivavamo da un momentaccio, tutti eravamo in discussione, io forse lo ero di più, essendo un esordiente. Nonostante questo ho affrontato la gara senza remore, rischiando nelle uscite come piace a me. È andata alla grande, per il sottoscritto, e per la squadra. La ruota ha iniziato a girare. Proprio contro il Toro. Proprio contro la società che mi ha scaricato dopo avermi illuso e coccolato per anni». Il destino, sempre lui.
Quello granata è senza dubbio il capitolo più combattuto della vita calcistica di Marchetti. «Nel Toro sono cresciuto, dopo la Primavera andai in prestito prima alla Pro Vercelli in C2 poi al Crotone in C1». Nella stagione 2004-05, campionato di B, la svolta col la maglia granata sembrava dietro l'angolo. Stavolta il portiere veneto non ha bisogno di pensarci su e snocciola il passato come se fosse il presente: «Quell'anno il titolare era Sorrentino, Fontana il suo vice, io il terzo. Quando Fontana è stato operato di appendicite, sono andato in panchina e nel momento in cui Sorrentino è stato espulso sono entrato addirittura in campo. Alla fine abbiamo perso, mi aspettava però la prima partita da titolare contro il Verona la domenica successiva, non stavo nella pelle, la mia vera prima grande occasione». Nemmeno il tempo di assaporare l'ebbrezza della vigilia. «Qualche giorno prima della partita la società ha acquistato Berti dal Parma. Una mazzata. Ho chiesto subito di essere ceduto in prestito». Una settimana dopo è tornato alla Pro Vercelli. «Lì ho ricominciato da zero». E dalla C2. «Dove i palloni non bastavano mai in allenamento e i campi erano in terra e pietra». L'anno dopo con la Biellese prima del doppio campionato con l'AlbinoLeffe, diventato poi il suo vero trampolino di lancio. Dalla C2 alla Nazionale in pochi anni, che scalata. «Come Torricelli, che dalla D arrivò in A per poi vincere i trofei più importanti con la maglia della Juve». E Marchetti potrebbe presto emulare il difensore in tutto e per tutto. Cagliari e AlbinoLeffe si contendono il cartellino, ma già ci sarebbe il Milan nel suo destino. «Non sono il tipo che si ferma troppo a pensare alle chiacchiere, preferisco badare al presente, il futuro poi si vedrà. Certo, l'ambizione di tutti è quella di migliorarsi, lo è anche la mia, ma da qui a dire che andrò al Milan ce ne passa». Intanto si tiene stretti il Cagliari e la Sardegna. Altro segno del destino: «Il padre della mia fidanzata, Rachele, è di Siliqua. Spesso sono andato a trovare i parenti la scorsa estate, mi hanno aiutato moltissimo appena sono arrivato nell'Isola».
La sua prima serie A, se l'è costruita parata dopo parata. «Non smetterò mai di ringraziare la società, i compagni, la città e l'intero ambiente. Grazie a tutti ho avuto la possibilità di disputare una grande annata e arrivare così a Coverciano». Sulla scia di Buffon, idolo e punto di riferimento sin da quando ha deciso di giocare al calcio con i guanti («e non solo»). Il numero uno juventino lo ha addirittura definito il suo erede. «E io ne sono onorato, lui è il migliore al mondo». Marchetti, invece, ha appena iniziato la scalata nel calcio che conta. A modo suo. «Sono un portiere a cui piace collaborare con i compagni, tenere la difesa alta, uscire con i piedi, talvolta in modo aggressivo e spericolato». Nel calcio come nella sua vita.