Carlo Nesti a Radio Vaticana: “Don Matteo Darmian insegna il valore degli oratori”
Darmian è il “Don Matteo” del calcio italiano
“Per chi conosce Darmian, - dice Carlo Nesti al Direttore della Radio Vaticana Italia Luca Collodi – e il suo nome Matteo, è stato facile trasformarlo nel “Don Matteo” del calcio. Ma, al di là delle etichette, è proprio nelle sue parole, che emerge la cultura dell’oratorio: “Frequentare l'oratorio era come stare in cortile. Ce l’avevo proprio dietro casa, e c’era tutto quello, che può servire per crescere bene: divertimento, sport, amicizie, valori. E parlo anche dell’onestà, della lealtà, del saper stare con gli altri, mica solo quelli della religione cristiana, che pure sento. In due parole: all’oratorio ti insegnano a vivere, anzi, ti educano a vivere. Io credo di essere il Matteo, che sono, anche perché ho passato la mia adolescenza all’oratorio di Rescaldina”. Ricordo che Papa Francesco, nell’incontro con i ragazzi del CSI, disse: “Non c’è vero oratorio, senza attività sportiva”. E ricordo che già prima, sia Papa Giovanni Paolo II, sia Papa Benedetto XVI avevano molto a cuore lo sport, come sistema per avvicinare i giovani all’etica e al Vangelo”.
Bonaventura senza creste e senza tatuaggi
“Indubbiamente, trovare un giocatore, oggi, che sia privo di creste e di tatuaggi, come Giacomo Bonaventura, è una rarità, ma chi ha superato una certa età, e osserva con molta diffidenza questi look esibizionistici, non deve dimenticare di essere stato giovane, e di avere conosciuto un altro tipo di stravaganza. Gli anni Sessanta-Settanta sono stati quelli dei “capelloni”, ed era difficile trovare qualche ragazzo senza i capelli lunghi, sulla scia dei Beatles. Loro, in realtà, all’inizio, non erano affatto esagerati come i loro fans! Io mi permetto solo di essere scettico sui tatuaggi, perché, dei nostri capelli, possiamo fare quello che vogliamo: pettinarli, spettinarli, tagliarli, modellarli e colorarli. Un tatuaggio, invece, resta fino alla vecchiaia, e magari esprime un sentimento, o un’idea, che siamo destinati a cambiare, in quanto le persone mutano continuamente, nel corso della vita. E allora, quel tatuaggio sembrerà una imposizione, e non una scelta, salvo ricorrere a dolorose rimozioni”.
La brutta scena isterica di Mexes
“Vorrei rievocare un episodio di tanti anni fa, e cioè il mio primo impatto con un derby. Fu quando, il 27 ottobre 1963, Ferrini, capitano del Torino, sentendosi umiliato dalle finte ubriacanti di Sivori, cominciò a rincorrerlo, e a prenderlo a calci, dando vita ad una delle risse da Far West più famose della storia del calcio. Per consolarci, diciamo questo. Allora, esisteva una tolleranza inaudita da parte degli arbitri, perché il calcio non viveva sotto l’occhio di mille telecamere. Ma è anche vero che il calcio era ancora un gioco, per cui nessuno pensava, sulle gradinate, di emulare quanto vedeva in campo. Ora possiamo essere certi che la sensibilità della gente è cambiata, e ci si scandalizza, giustamente, per una scena tipo Mexes, perché è un pessimo esempio per i giovani, e perché rischia di innescare una “bomba” di violenza fra gli ultras. Quindi, da una parte, rendiamoci conto di essere migliorati, ma, dall’altra, di non essere ancora all’altezza di garantire la lealtà e l’educazione in campo, partendo dalla provocazione di Mauri, fino alla reazione, al di fuori da qualsiasi giustificazione, di Mexes”.
Ibrahimovic: “Credi in Gesù? Allora credi in me”
“E’ stato Verratti, il giovane regista del Paris Saint Germain, a raccontare un episodio, relativo al periodo in cui avevano come allenatore Ancelotti, alla vigilia di una partita decisiva per lo scudetto. Ibrahimovic chiese ad Ancelotti: “Credi in Gesù Cristo? Allora credi in me, e rilassati”. In campo, fu proprio lo svedese a fornire l’assist del gol della vittoria. In questa sede, ci siamo già occupati dei deliri di onnipotenza di Mourinho (“Dopo Dio, ci sono io”), e, per sdrammatizzare, verrebbe da pensare che l’allenatore, almeno, era stato più modesto, perché si era piazzato un gradino sotto il Padreterno. Al di là del peccato, che commettiamo, nominando il nome di Dio invano, credo sia opportuno non giudicare le persone solo per i loro eccessi di autostima. Lo stesso Ancelotti svelò che la sorpresa più bella, a Parigi, fu scoprire l’altruismo di Ibrahimovic, per cui vale la regola d’oro, secondo la quale non bisogna generalizzare. Nessuno è perfetto, e si tratta sempre di scindere i pregi dai difetti, come analizzando noi stessi”.
Seguitemi in it.radiovaticana.va/news/società/sport