Tutti in Fila di Roberto Beccantini
Gli stadi non sono solo cemento armato: sono spesso cemento amato. Ecco perché il battesimo del nuovo Filadelfia mi ha emozionato. Frequentavo il vecchio Fila, quello che sembrava un museo, negli anni Settanta, anni in cui i derby erano talmente derby che Giampiero Boniperti li avrebbe aboliti.
Ferruccio Cavallero, figlio di quel Luigi morto a Superga, lavorava per «La Stampa» e copriva entrambe le squadre, visti i pochi metri che separavano il Combi, quartier generale della Juventus, dal campo-base del Toro. E poi Bruno Bernardi, Camin, i giocatori a un passo dai taccuini. Erano altri tempi. Di Brigate rosse, di compromessi storici, di golpe militari, dal Cile all’Argentina.
Il calcio non ci faceva chiudere gli occhi: semplicemente, ci serviva per aprire i sogni. Allo stadio si tifava e ci si innamorava con pudore, per paura che la squadra del cuore, gelosa, non gradisse l’intrusione. Al Fila il Toro si allenava soltanto, tra erbacce e pezzi di elica (e di epica), con i capi tribù che fiutavano la tua fede da un aggettivo che avevano letto o da un verbo appena origliato.
Venne abbattuto nel 1998. Era la tana del Grande Torino, che Boniperti ricorda sempre con una stima che rasenta la nostalgia, «perché era bello battersi con Valentino Mazzola, anche se quasi impossibile batterlo». E poi i tifosi, così vicini, così a picco che «finivo per baccagliare più con loro che con l’arbitro».
Era la capitale di un popolo, il Fila, e adesso che torna a vivere, ricostruito ma non sostituito, sfida la mia retorica di gobbo con le risorse dell’orgoglio, dell’appartenenza. Non basta per tornare grandi, ma aiuta a sentirsi importanti, diversi.
Direte: si dice così di ogni stadio. Vero. Ma il Fila che rinasce è una storia che non muore.
Roberto Beccantini