Grande ricorda Garella: "Essere del Toro o averci giocato significa un legame assoluto, esclusivo"

12.08.2022 18:04 di  Marina Beccuti  Twitter:    vedi letture
Grande ricorda Garella: "Essere del Toro o averci giocato significa un legame assoluto, esclusivo"
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Carlo Grande, ex giornalista de La Stampa e scrittore, un passato tra i Pulcini del Toro, ha ricordato per TorinoGranata Claudio Garella, scomparso oggi a soli 67 anni. Esordiente in serie A con la maglia granata, nonostante il suo passato a Verona e Napoli, dove ha vinto due scudetti, era rimasto tifoso del Toro. 

Che ricordi hai del giovane Garella torinese?

"Ne ho un ricordo indelebile perché eravamo ragazzini nello stesso quartiere, tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi Anni Settanta, vivevamo a Torino in Barriera di Milano e frequentavamo lo stesso oratorio, il Michele Rua; la squadretta si chiamava Monterosa e poi diventata Seo Borgaro, nel quale ho giocato. Lui era già nelle giovanili del Toro - aveva 15-16 anni, noi ne avevamo 12-13 – e a quell’età ci appariva già enorme. Come ricorda mio fratello gemello Roberto, dopo la messa la domenica mattina si metteva tra i pali del campo di calcio e noi ragazzetti cercavamo di batterlo ai rigori, tirando tutti in cerchio intorno a lui. Si piazzava in una nelle porte laterali, che erano più piccole, le occupava completamente col solo allungo delle braccia… Le sue mani ci sembravano enormi… Bloccava il pallone con una sola mano, altro che! Una volta mio fratello segnò e facemmo festa, lui sorrideva e faceva finta di parare con noi “gagnetti”. Blangero, Baraldi, Rossotti, Quarta… Ricordo gli amici, e lui al centro. Si giocava a calcio tutto il tempo: l’oratorio – ne ha scritto anche Umberto Eco – era un vivaio strepitoso, avercene oggi di strutture così, educative, per non lasciare i ragazzi per strada. A volte nel campo giravano cinque palloni e si giocavano cinque partite contemporaneamente, quattro di traverso nel campo e quella per lungo: per forza sviluppavi il colpo d’occhio, c’era un mischione tale…".

Poi naturalmente cominciammo ad allenarci seriamente, nel Seo Borgaro, e lui spiccò il volo.

Avete mai parlato del suo essere tifoso del Toro?

"Il senso di appartenenza era implicito, una cosa preziosa, comune, non so come dire… essere stati allattati dalla stessa capretta, appartenere a un’élite dello spirito… Mio fratello e io avevamo giocato nei pulcini del Toro (quello mitico di Pianelli, di Vatta e di Naretto, ricordo bene, da bambino, di aver partecipato a una festa con Nereo Rocco e Ferrini, che imprinting!), essere del Toro o averci giocato significava legame assoluto, esclusivo, accedere alla nobiltà vera, quella del sudore e del merito.

Non si può capire nel mercantilismo di oggi, men che meno mi stupisce non lo capisca Bremer: gli siamo riconoscenti ma adesso basta, il Toro non è la Juve, è molto diverso e per i nostri figli (visto che ha parlato di figli) vogliamo un destino legato ai valori dello sport. Certo, un buon stipendio e competere ai massimi livelli sono cose legittime, il Toro in qualche misura potrebbe ancora consentirlo, se solo si volesse. Qualcuno dovrebbe spiegare a Bremer che non contano solo il potere, i soldi e il successo".

L’hai più visto a Torino a fine carriera?

"Ci siamo incontrati solo un paio di volte, casualmente, forse allo stadio, lui mi ha riconosciuto, ricordava benissimo: “i gemelli!” ha detto sorridendo. Era una persona bella, rimasta umile nonostante le cose eccezionali che ha fatto. Anzi, proprio perché era umile ha potuto ottenere, sviluppando il talento, risultati eccezionali. Di gente così ha bisogno il Toro, che giochino non solo per se stessi ma per il gruppo, che ricordino come il calcio sia anche una cosa semplice, se hai talento e spirito di sacrificio. Il campo non mente mai".

Era un giocatore atipico, diciamo poco appariscente. Si era anche lamentato di essere stato dimenticato dal calcio, eppure aveva vinto due scudetti.

"Non mi stupisce che una persona come lui sia stata esclusa dall’ambiente calcistico e mediatico odierno. Nel circo di oggi le persone vere sono scomode, penso ad Agroppi e mi stupisco felicemente che Pecci venga ascoltato, mitico Piedone. Claudio Garella aveva giocato nel Verona dello scudetto (l’anno in cui, se non ricordo male, si decise di sorteggiare gli arbitri, guarda un po’, poi si tornò alla designazione e ripresero a vincere sempre gli stessi) e nello splendido Napoli di Maradona. Che le sue parate “atipiche” siano di buon auspicio per Vanja, certo devi avere i fondamentali ma anche istinto, il campione è un mix di fantasia, lavoro e istintività: puoi parare o segnare nel modo più atipico, l’importante è farlo e impedirlo agli altri. La fortuna bisogna meritarsela, se non stai in area di rigore, diceva mio padre, non segni mai. Oggi Juric dice: stare nella metà campo avversaria. Sono sicuro che i giocatori li sceglie molto in base al carattere e alla disponibilità per il gruppo, non certo per quanto guadagnano o si sentono fighi. Come Claudio, campione vero, schietto e torinese, torinista, cuore granata".