La Stampa - Cannavaro, quella lettera che nessuno ha aperto
© foto di Filippo GabuttiP er una volta, le poste non c’entrano, perché la raccomandata con ricevuta di ritorno spedita dal Coni per chiedere l’integrazione della documentazione medica di Fabio Cannavaro era stata recapitata a casa Juve, ai primi di settembre: solo che nessuno l’ha aperta. Chi l’ha ritirata, in mezzo ai pacchi di corrispondenza che ogni giorno planano dentro la casella del club bianconero, ha firmato, poi la busta s’è dispersa: l’hanno ritrovata ieri, dopo aver frugato sulle scrivanie e dentro ai cassetti degli uffici. Così la Juve ha ricostruito il brutto pasticcio che è costato l’indagine (e un po’ l’immagine) antidoping per il capitano della Nazionale. A parte la terribile arrabbiatura per un fatto decisamente evitabile, ieri nella società bianconera c’era ottimismo, considerate le circostanze, per la convinzione di poter dimostrare l’errore materiale e la totale buona fede. E di averlo fatto in tarda serata, davanti al procuratore antidoping, Ettore Torri.
L’iniezione a base di cortisone - questa la versione della Juve - fu fatta in via d’urgenza per la tutela della salute del giocatore, e ne fu data comunicazione al Coni, rispettando le norme a difesa del principio di lealtà sportiva. Magari un caso di colpa, non certo di dolo: e mai e poi mai - si sottolinea in società - da parte del difensore bianconero.
Diventata pubblica la segnalazione della Procura Antidoping, nel pomeriggio la Juve s’è chiusa in riunione per studiare e pesare un comunicato, mentre in sede è stato avvistato l’avvocato Michele Briamonte, dello studio Grande Stevens, che già altre volte ha assistito i bianconeri. Il club ha detto la sua sul far della sera: «In merito alla notizia relativa all’apertura di un’inchiesta della Procura Antidoping su Fabio Cannavaro - si legge nella nota - il settore medico della Juventus precisa di aver agito nel rispetto delle prescrizioni sanitarie e delle regole deontologiche, intervenendo in via d’urgenza, nello scorso mese di agosto, in seguito all’aggravarsi del quadro clinico conseguente a una puntura d’insetto». Poi ha spiegato la procedura: «In tale occasione venne attuata una terapia farmacologia indispensabile per prevenire eventuali complicanze, anche letali». Punto da una vespa durante l’allenamento, Cannavaro fu sottoposto a trattamento con un farmaco a base di cortisone, per prevenire uno choc anafilattico. «Il giocatore e lo staff medico della Juventus - spiega ancora il comunicato - saranno come di consueto a disposizione della Procura per chiarire quanto prima questa vicenda, compresi eventuali disguidi documentali».
È successo già ieri sera, quando poco prima delle nove, il procuratore antidoping Torri è atterrato a Torino per poi ascoltare nella sede del club Cannavaro, dirigenti e componenti dello staff medico. In un primo tempo sembrava che l’incontro con il giocatore, rimasto in città per la squalifica (di gioco) nelle qualificazioni mondiali, dovesse avvenire oggi. Il magistrato, invece, ha anticipato i tempi e ieri, alla presenza di Briamonte, ha sentito il difensore della Juventus per circa 45 minuti prima di lasciare corso Galileo Ferraris poco dopo le 22,30. Oltre al capitano azzurro (si deciderà oggi se domenica potrà aggregarsi alla Nazionale a Parma in vista dell’incontro con Cipro) Torri ha sentito anche il ds Alessio Secco, Bartolomeo Goitre, responsabile dello staff medico juventino, e Luca Stefanini, medico sociale.
La linea difensiva è piuttosto chiara: la società vuole dimostrare che la raccomandata è ancora intonsa, come è arrivata, e che nessuno ne ha potuto leggere il contenuto: di conseguenza - ragiona il club - non ci può essere alcun dolo nel mancato invio della documentazione al Coni relativa al trattamento medico cui era stato sottoposto Cannavaro. Se la ricostruzione verrà accolta dalla Procura e tutto si risolverà in una pena penuniaria, al massimo, a preoccupare è il danno d’immagine: al difensore e al club. Non pochi, nei commenti lontano dai microfoni, temono infatti che si inneschi di nuovo un’ondata di tifo ostile negli stadi, come all’epoca del processo doping: quella, si dice, sarebbe la pena più pesante.