Il Giornale - Cairo si confessa
Il cinquantaduenne Urbano, piemontese di nascita, milanese di adozione, sveglio per natura, è il secondo editore italiano di periodici (Dipiù, Diva e Donna, Prima Comunicazione, ecc.), abile raccoglitore di pubblicità e discusso patron del Torino, veneranda squadra in lotta per restare in A.
Da questo dolente capitolo - incurante delle attenzioni che mi dimostra, mi riempia bicchieri e porga zollette - comincio brutalmente.
«Ha di nuovo cambiato allenatore prendendo Camolese per tre mesi. Pronto a silurarlo?».
«Scaramanzia. Prima facevo contratti biennali, ma i trainer duravano meno. Ora l'ho fatto breve sperando in un rapporto lungo». Si toglie l'elegante giacca grigia e si mette in posa da combattimento sulla sedia girevole.
«Pensa di stimolarlo senza garanzie?».
«Nel calcio più del contratto conta il rapporto personale. Spero che tra me e Camolese si sprigioni questa chimica».
«Camolese era nello staff di Cimminelli che gettò il Torino nel baratro da cui lei lo ha tratto. Un recupero poco attraente», osservo.
«Camolese, però, fu un raggio di luce. Prese il Torino quart'ultimo in B e vinse il campionato. L'anno dopo, in A, il Torino fu undicesimo. Tra i migliori risultati recenti», dice dimenandosi sulla girevole con un'irruenza che si propaga ai ciuffi dei suoi folti capelli da viveur.
«Lei ha salvato il Torino e riportato in A. Poi, ha cominciato a fare il Sor Tentenna: sette cambi di allenatore in quattro anni».
«Non ho tentennato: se ho cambiato, ho preso decisioni. Magari sbagliate. Però, siamo in A da tre anni. Non accadeva da 12 anni», dice secco e impermalito.
«Si accontenta di poco».
«Non ho ancora potuto realizzare ciò che vorrei fare del Toro. Ci vuole tempo per fare esperienza e trovare le persone giuste. Quando nel '99 ho salvato le edizioni di Giorgio Mondadori, prima di fare di più ci ho messo cinque anni. Sandro Mayer (direttore di Dipiù) l'ho trovato dopo un lustro».
«Cosa vorrebbe fare del Toro?».
«Ora, l'imperativo è salvarsi. Dopo, voglio che possa giocarsela nelle prime sette, otto posizioni. Coppa Uefa, poi... Vedremo».
«Capisce qualcosa di calcio?», chiedo e respingo un secondo caffè che avanza corruttore.
«Ho giocato tanto a calcio da ragazzino. È la mia passione. Senza essere un tecnico, il giocatore bravo lo vedo».
«Le mancano i soldi per prendere qualcuno di davvero grosso?».
«Ho preso giocatori importanti. Nella maniera più assoluta, non è questione di soldi. Anche se non ho il patrimonio di Berlusconi o Moratti. Va poi considerato che con una squadra che fattura un quinto delle grandi - 40 milioni contro 220 - devo affrontare le stesse cose».
«Il suo modello di squadra?».
«Quella che alleva promesse. Investo nel vivaio e nella ricerca di talenti in altri Paesi. Per questo ho il direttore sportivo, Foschi, il suo collaboratore Pedersoli e una rete di osservatori sguinzagliati».
«Merita ancora il titolo papale di Urbano I che le dettero i tifosi?».
«Papale era eccessivo, mi bastava monsignore. Se hanno voluto esagerare è perché ho preso il Toro dal rotto della cuffia».
«Ora dicono che il problema è Cairo».
«Non credo proprio. Solo per partire ho iniettato 10 milioni nel capitale e 14 di fideiussione alla Lega calcio. Inoltre, do al Toro un mare di tempo. Ma va bene così. La squadra c'è e Camolese è motivato».
«Come avvoltoi sul Toro morente si affacciano di continuo aspiranti compratori. Vuole vendere?».
«Neanche una volta ho detto di volere vendere. Né ho visto compratori, salvo gli avvocati di un tale Ciuccariello che hanno parlato d'altro. Non voglio vendere, ma portare il Torino a buoni risultati».
«Si parla di una cordata Giraudo-Briatore-Moggi», insisto.
«Non scendo a commenti», dice duro.
«Il calcio è un boomerang. Chi sfigura, appanna la propria figura complessiva di imprenditore».
«Sul calcio sono inciampati ottimi imprenditori rimasti poi tali. È un mondo a sé. Non fa testo. Io lo amo e lei non insista».
Giancarlo Perna